di Nicola Piccioli (1)
Nicola
Piccioli "Cerchio Zen". Inchiostro orientale su carta cinese |
Diversamente dal buddhismo
originale indiano, nel quale i monaci si astenevano da ogni attività che li
potesse coinvolgere con la polvere del mondo, alcune scuole di buddhismo che si
sono sviluppate in Cina, nutrite dalle correnti di pensiero cinesi e dietro
l’esempio dei letterati, sulla strada della realizzazione del risveglio,
diedero una grande importanza alla pratica delle arti maggiori.
In particolare la calligrafia, a proposito della quale il poeta e filosofo Yang Xiong (53 a.C.-18 d.C.) diceva: “La parola è il suono dello spirito (xinsheng), la scrittura è la pittura dello spirito (xinhua), è dalle indicazioni date da questo suono e da questa pittura che si riconosce l’uomo elevato dall’uomo da poco”, fu la prima arte praticata dai monaci buddhisti cinesi, indirizzata allo svelamento della propria natura profonda al fine di far emergere la buddhità che è celata in ogni creatura vivente. In effetti il pennello è uno strumento estremamente sensibile che, come un sismografo, registra le componenti della personalità: qualità spirituale, capacità, e cultura. Questo è particolarmente evidente nel chan (san in coreano e zen in giapponese), scuola di buddhismo completamente sinizzato, dove meditazione e calligrafia hanno intimi legami. Ma le esperienze estetiche dei monaci erano generalmente guardate con sufficienza dai letterati cinesi, che non vedevano compatibilità tra la pratica di un’arte e il distacco dal mondo fenomenico propugnato dalla dottrina di Sakyamuni. Invece, quando il chan, tra XII e XIII secolo, approdò sul suolo giapponese, la sua concezione del mondo trovò larga approvazione presso la nobiltà dominante, divenendone un insostituibile supporto ideologico ed estetico. Così i frutti più esaltanti e apprezzati dell’arte della scrittura fatta dai monaci buddhisti si sono concretizzati nel paese del Sol Levante. In effetti l’arte zen è un’esperienza spirituale nel senso più autentico del termine. E’ praticata da monaci che dedicano intensamente la loro vita di meditazione alla ricerca del risveglio attraverso lo svelamento della vera natura della realtà. Così il loro fare calligrafia serve a realizzare l’emergere del proprio profondo e rende manifesta la sua realizzazione: è qui il grande potere di quest’arte. Affronteremo brevemente uno dei più sorprendenti e significativi risultati di questo fruttuoso incontro di culture: l’Immagine del Cerchio (cin. Yuanxiang, giapp. Enso). Il cerchio è una componente antica e basilare nella riflessione del buddhismo chan, dove sono chiare le derivazioni dalle concezioni cosmologiche daoiste e dalle loro posteriori elaborazioni neoconfuciane. In epoca Tang (618-907) la cosmologia daoista, con il “Diagramma del Culmine Supremo” (Taijitu), aveva definitivamente fissato il concetto di “Senza Culmine” (Wuji), rappresentato da un cerchio vuoto, come stadio antecedente al “Culmine Supremo” (Taiji), cioè alla manifestazione dell’energia nelle due polarità Yin e Yang, che nel loro rapporto dinamico danno vita a tutti i fenomeni.
In particolare la calligrafia, a proposito della quale il poeta e filosofo Yang Xiong (53 a.C.-18 d.C.) diceva: “La parola è il suono dello spirito (xinsheng), la scrittura è la pittura dello spirito (xinhua), è dalle indicazioni date da questo suono e da questa pittura che si riconosce l’uomo elevato dall’uomo da poco”, fu la prima arte praticata dai monaci buddhisti cinesi, indirizzata allo svelamento della propria natura profonda al fine di far emergere la buddhità che è celata in ogni creatura vivente. In effetti il pennello è uno strumento estremamente sensibile che, come un sismografo, registra le componenti della personalità: qualità spirituale, capacità, e cultura. Questo è particolarmente evidente nel chan (san in coreano e zen in giapponese), scuola di buddhismo completamente sinizzato, dove meditazione e calligrafia hanno intimi legami. Ma le esperienze estetiche dei monaci erano generalmente guardate con sufficienza dai letterati cinesi, che non vedevano compatibilità tra la pratica di un’arte e il distacco dal mondo fenomenico propugnato dalla dottrina di Sakyamuni. Invece, quando il chan, tra XII e XIII secolo, approdò sul suolo giapponese, la sua concezione del mondo trovò larga approvazione presso la nobiltà dominante, divenendone un insostituibile supporto ideologico ed estetico. Così i frutti più esaltanti e apprezzati dell’arte della scrittura fatta dai monaci buddhisti si sono concretizzati nel paese del Sol Levante. In effetti l’arte zen è un’esperienza spirituale nel senso più autentico del termine. E’ praticata da monaci che dedicano intensamente la loro vita di meditazione alla ricerca del risveglio attraverso lo svelamento della vera natura della realtà. Così il loro fare calligrafia serve a realizzare l’emergere del proprio profondo e rende manifesta la sua realizzazione: è qui il grande potere di quest’arte. Affronteremo brevemente uno dei più sorprendenti e significativi risultati di questo fruttuoso incontro di culture: l’Immagine del Cerchio (cin. Yuanxiang, giapp. Enso). Il cerchio è una componente antica e basilare nella riflessione del buddhismo chan, dove sono chiare le derivazioni dalle concezioni cosmologiche daoiste e dalle loro posteriori elaborazioni neoconfuciane. In epoca Tang (618-907) la cosmologia daoista, con il “Diagramma del Culmine Supremo” (Taijitu), aveva definitivamente fissato il concetto di “Senza Culmine” (Wuji), rappresentato da un cerchio vuoto, come stadio antecedente al “Culmine Supremo” (Taiji), cioè alla manifestazione dell’energia nelle due polarità Yin e Yang, che nel loro rapporto dinamico danno vita a tutti i fenomeni.
Questo cerchio vuoto rappresenta
il caos primordiale (hundun), caratterizzato
dalla mancanza di forma, che
potenzialmente contiene tutte le forme. Dunque il cerchio vuoto è il sublime e
perfetto simbolo della totalità, dell’originale fisionomia di tutte le cose.
Questo non poteva che intrigare i pensatori chan, per i quali realtà fenomenica
e realtà assoluta non solo sono interdipendenti, ma sono necessarie l’una
all’altra.
Torei (1721-1792 ) "Bodhidharma" (2) |
Così, già nel VI secolo, il
monaco Jianzi Sengcan (?-606), considerato il terzo patriarca chan, nella sua
Iscrizione della fiducia della mente (Xinxinming), affermava che “Il cerchio è
identico al grande vuoto, niente manca niente è in eccedenza” (Yuan tong daxu
wuqian wuyu).
ome spesso accade in molti autori
chan anche Jianzi fa uso, per definire il vuoto, del carattere xu, già usato da
Laozi per esaltare le sue virtù vitali e generative, al posto di kong, il
carattere scelto dai buddhisti per tradurre il sanscrito sunyata, idea di vuoto
che al contrario nega la concretezza del mondo fenomenico. Ma questa frase ci
ricorda anche il capitolo XLV del Daodejing (Classico del principio e della
potenza, inizio III sec. a. C.), dove si afferma che “La grande completezza è
come incompleta, il suo uso non la esaurisce” (Dacheng ruo que qi yong bu bi).
Il cerchio è una forma perfetta, dove inizio e fine si generano e si annullano
reciprocamente. Il cerchio elimina le opposizioni in una assoluta unità,
definita dal chan “Vero vuoto” (Zhenkong). Nell’elaborazione degli studi e dei
metodi di insegnamento i monaci chan fecero presto uso della multiforme
simbologia del cerchio. Uno dei primi fu Huizhong (?-776), che usava l’idea del
cerchio per spiegare ai suoi allievi l’essenza del risveglio.
Alla fine dei Tang la corrente
Guiyan del chan sviluppò un insegnamento, oggi perduto, fondato su una
complessa simbologia di figure circolari spiegata solo agli iniziati.
Nel XII secolo la corrente Yunmen
elaborò a sua volta un insegnamento basato su sei gruppi di cerchi, anch’esso
andato perduto.
Da ricordare, inoltre, la nota parabola illustrata chan del “Disegno del mandriano e del bue” (Muniutu), che ha un ruolo rilevante nelle istruzioni sulla pratica della meditazione dei giovani monaci e dei seguaci laici: si tratta di dieci episodi sui possibili passaggi verso il risveglio. Ognuno è costantemente racchiuso in un cerchio, di cui l’ottavo, a ricerca conclusa, è vuoto. Questo cerchio vuoto indica la consapevolezza della non dualità, che tutte le cose sono vuote. L’iconografia di questa parabola comparve all’inizio della dinastia Song (960-1279) ed è forse connessa con i precedenti insegnamenti basati sui cerchi. Anche il maestro coreanoSuji (829-893) usava nei suoi insegnamenti una serie di cerchi, avvalendosi in parte anche della parabola del mandriano e del bue. Sta di fatto che oggi in Corea, sui muri dei suoi numerosi templi san, è frequente trovarla dipinta. La figura del cerchio fu un importante riferimento simbolico anche per lo zen giapponese, in particolare per il movimento di rinnovamento che si riconosceva nella Zenga, o “Pittura zen”, iniziato alla fine XVII secolo. In quel tempo di grandi trasformazioni sociali, dovute alla pace imposta dai Tokugawa (periodo che durò dal 1603 al 1868), che vide prosperare le attività imprenditoriali e produttive, alcuni monaci zen si staccarono dal consueto e stretto contatto con l’aristocrazia che reggeva le sorti del paese, per rivolgere il loro messaggio alle masse popolari: contadini, artigiani e mercanti. Di conseguenza il loro stile di vita e i loro mezzi espressivi e didattici subirono un grande mutamento. Comunque in loro rimase viva la concezione del “Monaco letterato” (cin. Wenrenseng, giapp. Bunjinso) che, come i letterati cinesi, praticava le arti maggiori, quali poesia, calligrafia e pittura, per la propria elevazione culturale e spirituale e per dimostrare, attraverso l’opera d’arte, la comprensione dei meccanismi del mondo. Per i monaci, comunque, la calligrafia e la pittura erano, più che una ricerca estetica, parte integrante della pratica spirituale. Da queste nuove esigenze nacque la zenga. Questo tipo di pittura, derivata dalla pittura cinese monocroma (cin. shuimohua, giapp. suibokuga, lett. pittura ad acqua ed inchiostro) praticata dai letterati, dette vita a opere di grande originalità e immediata efficacia. Era strettamente grafica e la calligrafia vi aveva un grande ruolo, anzi a volte era la protagonista indiscussa.
Da ricordare, inoltre, la nota parabola illustrata chan del “Disegno del mandriano e del bue” (Muniutu), che ha un ruolo rilevante nelle istruzioni sulla pratica della meditazione dei giovani monaci e dei seguaci laici: si tratta di dieci episodi sui possibili passaggi verso il risveglio. Ognuno è costantemente racchiuso in un cerchio, di cui l’ottavo, a ricerca conclusa, è vuoto. Questo cerchio vuoto indica la consapevolezza della non dualità, che tutte le cose sono vuote. L’iconografia di questa parabola comparve all’inizio della dinastia Song (960-1279) ed è forse connessa con i precedenti insegnamenti basati sui cerchi. Anche il maestro coreanoSuji (829-893) usava nei suoi insegnamenti una serie di cerchi, avvalendosi in parte anche della parabola del mandriano e del bue. Sta di fatto che oggi in Corea, sui muri dei suoi numerosi templi san, è frequente trovarla dipinta. La figura del cerchio fu un importante riferimento simbolico anche per lo zen giapponese, in particolare per il movimento di rinnovamento che si riconosceva nella Zenga, o “Pittura zen”, iniziato alla fine XVII secolo. In quel tempo di grandi trasformazioni sociali, dovute alla pace imposta dai Tokugawa (periodo che durò dal 1603 al 1868), che vide prosperare le attività imprenditoriali e produttive, alcuni monaci zen si staccarono dal consueto e stretto contatto con l’aristocrazia che reggeva le sorti del paese, per rivolgere il loro messaggio alle masse popolari: contadini, artigiani e mercanti. Di conseguenza il loro stile di vita e i loro mezzi espressivi e didattici subirono un grande mutamento. Comunque in loro rimase viva la concezione del “Monaco letterato” (cin. Wenrenseng, giapp. Bunjinso) che, come i letterati cinesi, praticava le arti maggiori, quali poesia, calligrafia e pittura, per la propria elevazione culturale e spirituale e per dimostrare, attraverso l’opera d’arte, la comprensione dei meccanismi del mondo. Per i monaci, comunque, la calligrafia e la pittura erano, più che una ricerca estetica, parte integrante della pratica spirituale. Da queste nuove esigenze nacque la zenga. Questo tipo di pittura, derivata dalla pittura cinese monocroma (cin. shuimohua, giapp. suibokuga, lett. pittura ad acqua ed inchiostro) praticata dai letterati, dette vita a opere di grande originalità e immediata efficacia. Era strettamente grafica e la calligrafia vi aveva un grande ruolo, anzi a volte era la protagonista indiscussa.
Paola
Billi e Nicola Piccioli "Profumo del Cerchio". Inchiostro orientale su carta cinese, cm.97x80 |
Per i monaci la calligrafia e la
pittura erano, più che una ricerca estetica, parte integrante della pratica
spirituale. Da queste nuove esigenze nacque la zenga. Questo tipo di pittura,
derivata dalla pittura cinese monocroma (cin. shuimohua, giapp. suibokuga,
lett. pittura ad acqua ed inchiostro) praticata dai letterati, dette vita a
opere di grande originalità e immediata efficacia. Era strettamente grafica e
la calligrafia vi aveva un grande ruolo, anzi a volte era la protagonista
indiscussa. Non che prima di quest’esperienza non esistesse un’arte zen. In
Giappone, infatti, fino dalla sua comparsa, lo zen ha contribuito al progresso
di tutte le arti. Particolare rilievo ebbe la calligrafia dei monaci, venerata
più delle immagini e definita “Tracce d’inchiostro” (cin. Moji, giapp.
Bokuseki) che divenne spesso, anche per il suo legame con la cerimonia dei
maestri del tè, un’espressione di esplosiva forza anticonvenzionale.
I monaci che praticavano la
zenga, alla ricerca di un linguaggio immediatamente comprensibile e di facile
presa sulle masse popolari, portarono la loro attenzione su un segno grafico
basato sull’assoluta spontaneità, immediato e casuale, che rifletteva un reale
distacco dal mondo, sull’elementarietà dei simboli, sul cosciente rifiuto del
bello, sulla scelta del grottesco fino all’irriverenza.
La loro gestuale ed espressiva pennellata dava bruscamente vita a Buddha e Bodhidharma, a Confucio e Laozi, a Hotei (cin. Budai) e a tutta una serie di episodi e personaggi, tra il serio e il faceto, tratti dalla tradizione buddhista, colta e popolare. Ma anche a opere calligrafiche composte da concetti essenziali, a volte costituiti da un solo carattere. In questo vasto panorama iconografico fece la sua dirompente comparsa, eseguito con una violenta pennellata dotata di un’energia mai riscontrata prima, il cerchio: Enso.
La loro gestuale ed espressiva pennellata dava bruscamente vita a Buddha e Bodhidharma, a Confucio e Laozi, a Hotei (cin. Budai) e a tutta una serie di episodi e personaggi, tra il serio e il faceto, tratti dalla tradizione buddhista, colta e popolare. Ma anche a opere calligrafiche composte da concetti essenziali, a volte costituiti da un solo carattere. In questo vasto panorama iconografico fece la sua dirompente comparsa, eseguito con una violenta pennellata dotata di un’energia mai riscontrata prima, il cerchio: Enso.
Questo cerchio vuoto,
generalmente, è accompagnato, equilibrato nell’economia dello spazio, da una
brevissima calligrafia, o addirittura da un carattere al suo interno, che con i
loro contenuti offrono ulteriori e sottili indicazioni di significato e
sottolineano quanto questo gesto confini con l’esperienza della meditazione.
Questo soggetto, infatti, sempre frutto dello stesso segno, evidenzia l’unicità
di ogni momento come completo; ognuno rivela diversi momenti della stessa
persona.
Enso rappresenta magistralmente
la dinamica sintesi dei concetti di vuoto daoista (xu) e vuoto buddhista
(kong). Ricordiamo per inciso che il carattere Yan, che indica il cerchio ha,
secondo i contesti, anche i significati di “perfetto, completo, compiuto”. Tale
carattere, con questi altri significati, è usato per tradurre molte espressioni
buddhiste, come ad esempio la parola sanscrita Nirvana, che non si trova solo
traslitterata foneticamente, ma anche tradotta come “Perfetta quiete” o
“Perfetta mente”; si trovano, inoltre, tra gli altri, “Completa perfezione” (il
tathata), “Perfetta e completa dottrina” (il buddhismo Mahayana), “Completo
risveglio”. A questo punto il cerchio assunse una simbologia straordinariamente
ricca. Indica la perfezione e la completezza di tutti i concetti che gli sono
posti accanto. E’ la rappresentazione grafica dell’infinito, del caos
primordiale alla cui unità bisogna ritornare per capire l’essenza del mondo
fenomenico, della non dualità iniziale che dobbiamo riscoprire in noi alla
ricerca della nostra natura di buddha. Raffigura il distacco dal mondo e la
profonda quiete della meditazione, che ci faranno approdare al risveglio.
Il cerchio, simbolo del
compimento della natura ciclica dell’esistenza, è considerato la manifestazione
visiva di uno dei più importanti testi buddisti, centrale nella riflessione
zen:
il Sutra del cuore. E’ infatti evidente che in quest’immagine forma e vuoto sono interdipendenti, ognuno vive dell’altro o fa vivere l’altro. A questo modo si concretizza uno dei più alti messaggi di questo sutra: “Sariputra, la forma non è diversa dal vuoto e il vuoto non è diverso dalla forma, la forma è precisamente vuoto e il vuoto è precisamente forma” (cin. Shelizi se bu yi kong kong bu yi se se ji shi kong kong ji shi, sans. Iha Sariputra rupam sunyata sunyataiva rupam, rupan na prithak sunyata sunyataya na prithag rupam).
il Sutra del cuore. E’ infatti evidente che in quest’immagine forma e vuoto sono interdipendenti, ognuno vive dell’altro o fa vivere l’altro. A questo modo si concretizza uno dei più alti messaggi di questo sutra: “Sariputra, la forma non è diversa dal vuoto e il vuoto non è diverso dalla forma, la forma è precisamente vuoto e il vuoto è precisamente forma” (cin. Shelizi se bu yi kong kong bu yi se se ji shi kong kong ji shi, sans. Iha Sariputra rupam sunyata sunyataiva rupam, rupan na prithak sunyata sunyataya na prithag rupam).
Enso è dunque qualcosa di
perfetto, è un simbolo universale di totalità, emblema dell’uguaglianza di
tutte le creature viventi, riferimento all’onnicomprensiva virtù della dottrina
buddista, è la quintessenza del mandala (lett. Cerchio).
Tra i monaci più famosi che hanno
tracciato Enso ricordiamo:
Isshi Bunshu (1608-1646). Fu il primo abate del monastero Reigen, fondato dall’imperatore Gomizuno. Artista di grande rilievo, ebbe contatti e studiò con i maggiori poeti, calligrafi e pittori del suo tempo. Viene considerato l’iniziatore della zenga.
Isshi Bunshu (1608-1646). Fu il primo abate del monastero Reigen, fondato dall’imperatore Gomizuno. Artista di grande rilievo, ebbe contatti e studiò con i maggiori poeti, calligrafi e pittori del suo tempo. Viene considerato l’iniziatore della zenga.
Hakuin Ekaku (1685-1768). Abate
del tempio Myoshinji di Kyoto, nel 1758 fondò un suo tempio a Izu. Grande
divulgatore delle dottrine zen presso il popolo, e molti trattati nella più
accessibile scrittura kana. Di lui rimangono, oltre alle pitture e alle
calligrafie, tre statue di legno e alcune ballate popolari. E’ il principale
maestro zen degli ultimi trecento anni.
Torei Enji (1721-1792), convinto
assertore della sostanziale identità tra shintoismo, confucianesimo e buddismo.
Le sue opere, cariche di simbolismo e di un gusto straordinariamente moderno,
sono più calligrafiche che pittoriche.
Sengai Gibbon (1750-1837). Di
origine contadina, grazie alle sue grandi doti intellettuali, divenne abate nel
più antico tempio zen del Giappone. All’età di settantun anni abbandonò tutto
per vivere e predicare in mezzo al popolo. La sua innata semplicità lo portò a
realizzare zenga ricche di grande sarcasmo profano. Alcune sue opere furono
presentate alle Esposizioni Universali di Parigi del 1876 e del 1889; questo
evento ebbe una certa influenza sulla pittura dei post-impressionisti, in
particolare sulla linea calligrafica di Toulouse-Lautrec (1864-1901).
Nantembo (1839-1925). Nato da una
famiglia di samurai, alla carriera nelle gerarchie monastiche preferì essere
monaco errante. Dotato di grande umanità, è stato una delle maggiori figure del
Rinzai zen.
Il fondatore del movimento
artistico Gutai, Yoshihara Jiro (1905-1972), paragonava il gesto segnico di
Nantembo a quello del pittore americano Pollock (1912-1956).
Non solo i monaci si cimentavano
e si cimentano con Enso; anche molti calligrafi ne fanno uno dei loro cavalli
di battaglia. E artisti occidentali, attivi nel campo della pittura gestuale
astratta, non disdegnano sperimentarsi attraverso lo studio della calligrafia
estremo orientale, tracciando Enso.
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(1) Nicola Piccioli - Presidente dell’Associazione Culturale FeiMo. Docente di calligrafia e sigillografia cinesi presso la Civica Scuola di Lingue e Culture Orientali del Comune di Milano (ISIAO). Studioso di estetica estremorientale, collabora con maestri e professori cinesi e giapponesi.
(1) Nicola Piccioli - Presidente dell’Associazione Culturale FeiMo. Docente di calligrafia e sigillografia cinesi presso la Civica Scuola di Lingue e Culture Orientali del Comune di Milano (ISIAO). Studioso di estetica estremorientale, collabora con maestri e professori cinesi e giapponesi.
(2) La stilizzazione della
figura di Bodhidharma in meditazione è stato uno degli elementi grafici
che contribuirono alla sintesi segnica del Cerchio Zen.
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